Autore: Fabrizio Silvetti

Verso l’infinito – Diario di viaggio sulle vette del mondo
[thedotcultura.it]

Il Diario

Un diario si vorrebbe fosse un reportage del vissuto, quasi un resoconto, a giustificare le attese.
In effetti questo non è un diario, letteralmente parlando.
Racconto la mia storia, la scrivo attraverso parole fatte di gesti, decisioni, sguardi, impegno, amore.
È una traduzione, in un linguaggio codificato, di tutto ciò.
C’è sempre tempesta, o meglio un turbinio di sensazioni, che può scaturire da una giornata vissuta appieno o da un pensiero o intuizione di un secondo.
Metto insieme le frasi, le inizio al mattino, aggiungo parole, a sera cerco i gesti più profondi.
A volte reali, altri inventati, al fine di trasmettere una emozione reale.
La stessa emozione detta in una lingua diversa.

15/06/24

È una sensazione in bilico tra felicità e paura quella che si muove dentro all’indomani di ogni partenza verso esperienze che contemplano l’incognito.
Delle quali non c’è certezza, non solo di riuscita, ma anche di superamento.
Per le quali occorre un passo al buio, il primo, che guiderà tutti gli altri.
Sono in partenza per il Karakorum pakistano, per vivere giornate intense in condivisione con una montagna, in un ambiente spaventosamente carico di bellezza (e meravigliosamente spaventevole).
Il Broad Peak è alto 8047 metri, circondato da altri giganti come i Gasherbrum, il K2.
Non è una sfida, non sarà una conquista.
In montagna non si va per conquistare, ma per scoprire.
Non si va per trovare, ma per cercare.
E cercherò tutte le emozioni che sarà possibile provare, perché la vita è dentro.

16/06/24

Sto passeggiando nel corridoio dell’aereo che mi sta portando ad Islamabad. Tutto intorno a me sembra immobile.
Da questa illusione vengo ingannato ogni giorno. Mi sembra di potermi fidare delle certezze di cui mi sono circondato, dimenticando che sto viaggiando intorno alla Terra, che a sua volta gira e gira, intorno alle stelle, e che poi l’Universo si sta espandendo.
E se guardo dentro me lo stesso turbinio è proprio delle emozioni.
Ecco, inseguire obiettivi, cercare di salire le montagne, è un po’ cercare questo turbinio, per allontanare certezze ed illusioni fuorvianti dall’intensità della vita.
Allora vado.

17/06/24 – La risposta è nel vento

Skardu è la porta del Baltoro. Karakorum. Nord del Pakistan.
L’aereo prima di atterrare fa un ampio giro sopra alle case, virando e inclinandosi, che sembra voglia entrarci dentro.
Montagne tutt’intorno.
La piana dell’Indo, che si apre all’improvviso, sembra irreale per come è lì, incastrata.
Distese di sabbia dominano il paesaggio, sabbia che penetra nella vita delle persone che qui vivono portata dal vento. Un vento forte, che piega gli alberi.
Così come i pensieri che si insinuano tra i capelli spinti dai sogni.
Puoi chiudere le finestre, puoi coprirti il viso e gli occhi, ma non puoi fermarla.
Così come non puoi fermare quel misto di desiderio e timore che questa natura esercita, attraendoti.
Siamo in tanti qui a cercare qualcosa, foss’anche solo una vetta, ognuno con il suo carico di ramponi, tende, minestre liofilizzate.
Credo sia lecito dubitare del suo senso e chiedersi il perché.
Perché si vuole l’inutile salire le montagne?
Chiedetelo a Bob Dylan.

19/06/24 – La strada che non c’è

Da Skardu ad Askole è un viaggio sulla luna.
Il Toyota BJ40 è un fuoristrada inarrestabile, capace di caricarsi sulle spalle bagagli, alpinisti e gadgets pakistani per scaraventarli nello spazio, depositandoli a destinazione.
Perché l’unico punto fermo di questo viaggio è la meta, Askole.
In mezzo solo incognite.
Come un mago, il buon Dio, si diverte a far scomparire la strada, per poi illuderti poco dopo che sia ricomparsa.
E allora, valanghe di emozioni.
Incredulità, paura, stupore, felicità, e un pizzico di terrore.
Occhi aperti, occhi chiusi, mani che afferrano le tante maniglie a cui tenersi, salti, mani nei capelli, a volte capriole.
Una bella metafora della vita questo viaggio.
Se ti fai condizionare dalle difficoltà, non arriverai mai.
Se invece lasci i tuoi occhi guardare, le tue mani tenere, se non lasci andare la tua mente oltre la curva, se ci metti forza e fiducia, ad un certo punto Askole appare.
E ad Askole il mondo si spalanca.
Il Baltoro ti accoglie, ti invita, ti aspetta.

20/06/24

Un passo, poi un altro.
Questa prima tappa del trekking che mi porterà al campo base del Broad Peak è finalmente arrivata.
Partendo da Askole, Jhula prima o poi arriva.
La traccia risale le rive del fiume Braldo, che urla la sua rabbia enorme per meglio farci capire le nostre dimensioni, per riequilibrare il rapporto dei valori tra noi e la natura.
Rapporto che ci sta sfuggendo di vista , e di mano.
Un respiro, poi un altro.
Il respiro è un atto fondamentale del camminare in quota, del vivere qui.
Occorre controllarlo volontariamente perché sia il più intenso possibile, occorre pensarci.
Altrimenti respiriamo inconsapevolmente come sempre, in modo quasi automatico. E questo, qui, non è sufficiente.
Del resto anche nella vita non è sufficiente.
Non lo è vivere lasciandoci condurre dalla routine, dalla paura di affrontare decisioni faticose.
Stiamo comodi nell’abitudine.
Ci piace galleggiare nel mare calmo, nella nostra vasca da bagno.
Ma se vogliamo arrivare dove l’abitudine non ci può portare, dove c’è profondità, allora occorre prendere una barca e provare ad attraversarlo, il mare.
Un passo dopo l’altro, una tappa dopo l’altra.
Anche domani.

21/06/24

Vivo in una casa che ho costruito con le mie mani, fatta di argilla, di paglia, legno e sassi.
Per qualcuno potrebbe non sembrare un casa.
Ci vivo con la mia famiglia, ho due bambini, frequentano la scuola del villaggio.
Vorrei per loro una vita diversa, anche se in fondo la mia vita mi piace, non ne vorrei un’altra, non ne conosco altre.
Faccio il portatore.
Un portatore trasporta cose, importanti e non, per chi vuole salire, o solo vedere, le montagne delle valli dove sono nato.
È il mio lavoro, c’è da poter mangiare, poter andare a scuola.
La fatica non mi spaventa, è dura, ma la mia forza è nella condivisione. Siamo tanti a muoverci su questi sentieri, tutti diversi, tutti uniti. Facciamo parte di un’unica entità, siamo portatori Baltí.
Forse ognuno di noi non ne è nemmeno consapevole, così come le diverse cellule che mi compongono non sono consapevoli di appartenere al mio corpo.
Basta che porti a compimento il mio lavoro, avrò il mio compenso.
La mia vita è semplice.
È semplice perché mi accontento di ciò che ho.
Esistono forse vite che possono essere complicate?

21/06/24 – Facciamo finta che

Da Jhula a Paju è la seconda tappa di questo periodo di acclimatazione che mi accompagna verso la montagna.
Il mio corpo è ormai autonomo nel camminare, lo lascio fare e mi lascio andare ai miei pensieri.
Gioco con loro:
Facciamo finta che tu sia il mio bimbo, ed io sia il tuo papà.
Non mi spavento, e che ti vengo a cercare.
Facciamo finta che domani ci sarà il sole a splendere, e le montagne tutte intorno, e che io non inciampi più nella nostalgia.
Facciamo finta che questo sentiero che porta i miei pensieri sia un’astronave, e tu il suo capitano.

22/06/24 Da Paju a Khorbutse

Da quando è iniziato il viaggio l’acqua mi ha accompagnato.
Scorreva nei fiumi che ho seguito risalendo le valli, Indo, Shigar, Braldo.
Ma lei andava in una direzione diversa dalla mia. Io salivo, lei scendeva.
Come se io andassi a cercare in un passato, in uno scorrere che è già stato.
Come la luce che ci arriva dalle stelle, ma che è partita da qualcosa che forse non esiste più.
Che cosa sto andando a cercare?
Forse un’illusione, o forse un luogo dove questo ha inizio.
Però, poi, una volta salito sul ghiacciaio del Baltoro, poco dopo Paju, questa acqua che ha riempito le mie orecchie per giorni, si ferma.
Diventa dura, immobile.
Quello che prima era un video, improvvisamente diventa un fermo immagine, una fotografia.
Sto entrando in un regno dove le regole non sono piu quelle a cui siamo abituati.
Dove esiste una attrazione gravitazionale in grado di fermare gli orologi.
E dove si accendono i sogni.
Forse è questo che sto cercando.

24/06/24 – Dialogo tra un salitore di montagne e un passeggere

S: Hello, how are you?
P: Camminare su questi sassi, su questo ghiacciaio, mi è faticoso
S: Immersi in questo mondo incantato la fatica non si sente..
P: Sono venuta qui per cercare la verità, per vedere cosa io sia. Voglio capire se quassù riesca anch’io a vedere la mia bellezza.
S: Sei riuscita a trovarla la verità?
P: L’ho intravvista, ma forse è un po’ più sù. E tu perché vuoi salire fin lassù?
S: Credo per lo stesso tuo motivo. Noi sempre viviamo e cerchiamo una vita in discesa, inseguendo il risultato con la minore fatica e più velocemente possibile. Io qui invece cerco una vita in salita, che non sa se riuscirà a raggiungerlo il risultato, ma che nel cercare trova il suo significato. Non si va in montagna per trovare, ma per cercare.
P: Allora credo che se anche arriverai sulla punta, la verità potrà sfuggirti ancora una volta, perché potrebbe essere ancora più sù.
S: Buon cammino allora
P: Che lo sia

26/06/24

Se mi guardo intorno alzando gli occhi le dimensioni di queste montagne mi lasciano percepire che su questa scena le emozioni che ne scaturiranno saranno anch’esse enormi.
Sono venuto fin qui per cercarle, o forse per farle emergere da quel catino che le contiene imprigionate, e che è dentro ognuno di noi.
È solo uscendo dalla convenzione di giornate condotte da schemi più o meno prestabiliti, guidati, protetti, che riesco a farle vivere.
Guardando la montagna da questo campo base, da dove posso percepire ciò che vivrò in ogni passaggio tentando di salirla, sento che le emozioni già si stanno organizzando.
Allora, quando sarò lì, le riconoscerò.
Immaginare, avere visione, è già vivere, e mi fa percepire libertà.

27/06/24 – Lo zaino

Mi preparo un caffe nella mia tenda al campo base per ragionare su ciò che mi serve.
Domani salirò al campo 1 per adattare il mio corpo alla quota, il primo lungo il percorso di salita, posto a 5600 metri su una cresta rocciosa. L’unica in un mare di neve e ghiaccio.
Devo organizzare il materiale del mio zaino che, come l’acqua nella gobba del cammello, sarà tutto ciò di cui potrò disporre.
Dopo tante ore di salita mi piacerebbe avere qualcosa, anche se in piccole quantità, che con il suo sapore soddisfi la nostalgia. Parmigiano, salumi, pane di segale. E un Coca Cola (Zero), perdonatemi.
Questo oltre a tenda, sacco per la notte, materassino, gas, fornello, cambio di abbigliamento intimo asciutto, pala, picozza e tutto il materiale alpinistico che indosserò.
Immancabile il peluche di Dedé.
Devo avere qualcosa che come un elastico mi tenga legato a casa, che non mi permetta di allontanarmene.
Guardando in alto, ma ben stretto a ciò che ho e sono, e che attendo di ritrovare.
Mi piacerebbe poterci infilare anche il mio computer, la mia bicicletta, le vacanze al mare con Claudia e Davide, le corse in Cusna, in questo mio zaino.
E poi anche il desiderio, la determinazione, la prudenza, l’entusiasmo, la pazienza, la capacità di controllo del mio corpo, della mia testa, e del cuore.
Ho uno zaino grande, forse riuscirò ad infilarci tutto.
La fatica del portarlo non mi ha mai spaventato.

28/06/24

Prima butto lo zaino, un respiro e con tutta la forza salto il torrente che scorre sul ghiacciaio.
Sbagliare non si può, non ci sarebbe replica.
Oltre la lingua del ghiacciaio inizia la salita.
Mi infilo i ramponi, indosso il casco, mi assicuro alle corde, faccio un passo.
Subito mi assale la certezza che sarà dura.
La pendenza è molto elevata, la neve non troppo consistente e ad ogni passo si sfonda con lo scarpone.
Un tratto di roccia mista a ghiaccio vivo mette a dura prova il mio sistema cardio-circolatorio.
Dietro la cresta speri che la pendenza possa diminuire.
Aumenta.
La lunghezza infinita.
Dopo 5 ore di adrenalina e fatica arriva la cresta, e il campo.
Lo spazio dove mettere la tenda è poco, il desiderio di piazzarla è tanto.
Lavoro con pala, picozza e ramponi per ricavare il minimo spazio necessario, lo livello, aggiungo rocce, spacco, pesto, gratto, impreco, incastro i paletti, tendo cordini.
La tenda è montata.
La notte al campo 1 a 5600 metri assicurata.
Sciolgo la neve con il fornello, preparo una vellutata di funghi porcini, mangio il minimo necessario.
Mi cambio e mi infilo nel sacco a pelo, lascio aperto uno spiraglio della chiusura, voglio guardare, voglio lasciarmi impressionare dalla verticalità e dalla bellezza del pezzo di meraviglioso mondo in cui mi sono infilato.
Arriva il buio, io ed il peluche proviamo a dormire, domani scenderò di nuovo al campo base per recuperare.
Per ora aspetto domani per avere nostalgia..

30/06/24

Solo, mi piace.
Non cerco di riempire i vuoti di giornate d’attesa con compagnie dedicate, ma resto solo.
Oggi ho camminato fino al campo base del K2 per cercare questi momenti, per restare in movimento, per familiarizzare con me stesso nel vivere questa situazione.
Devo cambiare i parametri, ricalibrare valori, vedermi in un’ottica diversa.
Lascio andare le mie gambe e ragiono sui giorni passati, sui loro insegnamenti, pianifico i futuri, penso a casa, vivo nostalgia, provo tenerezza e amore.
Resto in compagnia di ciò che è dentro me, mantengo il legame, ne trovo le ragioni.
Sto con la mia solitudine, lei sta con me.
Ho necessità dell’azione, perché è in essa che tutto si dissolve; paure, pensieri, e si vive.
Ma quando non è il tempo, cerco di mettere a frutto, di creare fondamenta, di consolidare radici.

01/07/24

Torna a trovarmi.
Vedrai che qualcosa sarà cambiato.
Le cose non sono come sono, oggettivamente, altrimenti una montagna sarebbe una montagna e un giorno solo una sequenza di ore.
Invece se ritorni io imparerò a conoscerti, ed anche tu troverai confidenza lungo la salita, guarderai i passaggi, le rocce, la neve con gli occhi di chi già sa come fare.
Si creerà un legame, perché il tempo che trascorri in mia compagnia, senza considerarmi come qualcuno da conquistare, ma semplicemente avvicinandomi, renderà giustizia di ciò che sono.
E sono un’opportunità.
Credo che tu lo sappia, io sono qui fuori, ma ero entrata nella tua testa prima ancora mi vedessi.
A domani, allora.

02/07/24 – Notte a Campo 2

Ancora un’ora, ancora un’ora a denti stretti.
Poi potrai respirare, guardare, gioire, sederti sullo zaino e sentire qualcosa di simile alla perfezione.
Salire ai campi alti è un passaggio dietro ad una curva cieca.
Ci ragioni, prima, pianifichi, poi parti e non sai che succederà.
Potresti esaltarti per le reazioni del tuo corpo, potresti stare male, potresti trovarti ad avere paura perché sei catapultato in una dimensione che non ti appartiene, per cui tu sei totalmente inadeguato.
Però troverai una luce diversa, sensazioni che il tuo corpo non aveva sperimentato, sentirai dentro una vertigine che ti farà desiderare di andare più sù, andare oltre.
E notti infinite ad attenderti, nella tua tendina, e forse qualche dubbio, ma alla fine della giostra ti troverai in tasca qualche moneta in piu.
Al prossimo giro ti serviranno per acquistare un altro gettone.
Oggi sono arrivato fino a qui, domani scenderò per recuperare, e per cercare nuove ragioni per cui riempire lo zaino di zuppe liofilizzate, power banks e nostalgia di casa, fino a che sarà l’ora di tornare.

05/07/24

Nella notte svegliandomi, come un’allucinazione, ho intravisto sul soffitto della mia tenda, disegnata da intrecci di cuciture e cerniere, la sagoma di una bicicletta.
Della mia bicicletta.
Manca casa.
Non sarebbe leale nasconderlo.
Le difficoltà qui non sono quelle fisiche, fatica, freddo, disagio, ma quelle del cuore.
È un equilibrio dinamico e difficile, soprattutto in giorni in cui sei costretto all’immobilità, dove non puoi guardare avanti.
Dove non devi guardare avanti.
Devi continuamente essere attento, essere reattivo affinché l’equilibrio non ti sfugga.
Come l’andare in bicicletta, se smetti di pedalare, cadi.
I momenti di crisi ci sono, fino alle lacrime spinte fuori da emozioni troppo forti.
Ti rinchiudi in te stesso e devi reagire, altrimenti ti fermi.
Altrimenti l’equilibrio in quel punto di minimo emotivo richiederebbe molte energie per poterne uscire.
Forse troppe.
Solo la pazienza se soffia sull’argilla, può creare l’uomo.

07/07/24

Se cerchi vicino, puoi trovare ciò che è lontano.
Fino ad oggi durante questa spedizione, ho cercato di fissarmi come orizzonte l’imbrunire del giorno, come se domaani non facesse parte dello stesso programma.
Arriva poi un momento, perché di un attimo si tratta, in cui alzi lo sguardo e ti accorgi che forse stai entrando in una fase, come dire, in cui puoi ottenere il raccolto.
O almeno a cominciare a mietere.
Allora metti insieme ciò che hai fatto, lo analizzi come fosse il risultato di un esperimento, ti chiedi se potrebbe essere sufficiente, ti spaventi un po’ per quello che dovrà ora essere, raccogli le forze, sorridi, lasci andare il prossimo passo.
Se volessimo tentare solo nel momento in cui fossimo in possesso della certezza della riuscita, saremmo ancora al punto di partenza.
Ma c’è il disegno di un cerchio che ho cominciato a tracciare con la punta di matita su di un foglio bianco, che vorrei cercare di chiudere.
Per ogni spezzarsi della mina, cercherò di riprendere il tratto, per trovare, pur piegato sulle ginocchia, il suo inizio.

09/07/24

In controluce, dall’interno della mia tendina, osservo i chicchi di ghiaccio che il vento porta senza sosta in questo pomeriggio di luglio, a 6200 metri su questa montagna che via via mi incute sempre più rispetto e un po’ di timore.
La scena è di quelle da ombre cinesi, dove la danza non sembra affatto casuale, ma guidata da un giocoliere divertito.
La salita dal campo base è estenuante, iniziata alle 5:00 di mattina sotto una fitta nevicata che mi ha accompagnato per metà percorso, giusto fino al campo 1.
Se riesci ad isolarti da questa fatica però, quasi il corpo non fosse più affar tuo, si arriva.
E la fatica si dimentica.
Come il dolore.
Quel che resta è l’aver faticato, l’aver provato dolore, come questo ti ha educato, poco alla volta trasformato.
Il risultato sarai tu, più forte, più sensibile, diverso.
Avrai nostalgie più intense, gioie più consapevoli, forse amerai meglio.
Questo è il senso.
Il senso di vivere lunghi periodi nel disagio, con un po’ di paura, faticando.
Con il cuore in subbuglio per la mancanza degli affetti.
Con un bimbo che ad ogni “papi quando torni” ti spara in faccia tutta la tua inadeguatezza.

11/07/24

Ho passato la terza notte ai campi alti e mi sento ben acclimatato, ora però sono in arrivo altri giorni di brutto tempo con nuove nevicate soprattutto in quota. Questo rende più difficile la salita oltre campo 3 verso la vetta.
Alcune persone sono state investire senza conseguenze da piccole slavine dovute alla neve caduta nei giorni scorsi. Le forti pendenze della via di salita non giocano a favore.
Aspetterò la settimana prossima per valutare le condizioni della montagna e del meteo.

12/07/24

Se si chiudono gli occhi i rumori si amplificano.
Le notti al campo base non sono sempre silenziose, gruppi elettrogeni in funzione, canti in lontananza di spedizioni commerciali per far sembrare una festa ai clienti, come quelle degli aperitivi in città, l’essere qui.
Il campo base è il luogo dove si trascorre la quasi totalità del tempo della spedizione su queste montagne.
Giorni in cui apparenti indispensabili attività occupano la vita, notti in cui indispensabili sogni occupano le incognite di domani.
C’è spazio per tutti in questa piazza Grande, ma quando carichi di zaino e pensieri ci si incammina verso la morena del ghiacciaio nella direzione dei campi alti, tutti questi rumori di fondo si affievoliscono.
Tutto diventa ovattato, solo il tuo forte respiro emerge.
Salendo, per forza di cose, per la concentrazione, per la fatica, per la tensione, entri in te stesso.
Non è un viaggio solo fuori.
Scopri emozioni tue, sconosciute, impari con chi hai a che fare, incontri te stesso.
Paure, insofferenze, stupori, pazienze, entusiasmi, mancanze, commozioni degli occhi e del cuore.
È una montagna, certo, che stai scalando, ma è anche un’anima, la tua, in cui stai entrando.

14/07/24

Le previsioni meteo sembrano dare una tregua tra martedì e venerdì prossimi.
Proverò la salita.
Sarà un’unica possibilità, perché successivamente il meteo di nuovo cambierà ed il tempo a mia disposizione volge al termine.
Come potrà andare lo scoprirò, ma nel frattempo l’esperienza sarà vissuta.
Ho messo impegno, pazienza, testa e cuore.
Se c’è la possibilità di un risultato, è solo quando hai dato tutto.
Se hai dato tutto, non c’è possibilità di rimpianto.
Farò un respiro, poi un altro..

18/07/24

In tre giorni si può ricapitolare una vita.
E sarà l’ultima opportunità. Il tempo corre, non potrai ritentare.
C’è una nascita delle cose, degli entusiasmi, cerchi di immaginare, ti rimetti in gioco.
Il primo dei tre giorni ripercorre una parte già messa in scena più volte, il campo 2 a 6200 m è uno dei gradini da percorrere, hai una tendina ad attenderti, ormai è il tuo confort.
Il secondo giorno è invece una novità.
È la porta di accesso con i suoi 7000 metri alla vetta.
Chi vuole provare ad accedervi deve passare da li.
Ventoso, freddo, con una vista da strappare gli occhi.
Dubbi, timori, la notte sarà serena?
La lunga notte.
Ho mosso i primi passi alle 23.
Il tempo scorre, la salita infinita.
Ma non è chiara. E non c’è la luna.
C’è neve e vento.
Il turbinio delle emozioni continua.
Vado?
Potrebbe aprirsi tra un po’, ma partire tra un po’ sarebbe tardi.
Ci vuole tempo, anche per scendere.
Ho acceso la frontale, comincio a salire.
Ad ogni passo un dubbio.
Continuamente la mia mente mi propone scenari diversi, cerco di non ascoltarla.
Bevo, riparto.
Protetto dalla mia attrezzatura il freddo quasi non lo sento.
Il buio, si. Lo sento.
Proiettarsi su di una montagna che sembra inaccessibile, per averla immaginata, osservata, per averne sentite le dimensioni, le lontananze, e trovarcisi sopra, nella notte, solo, spinto e tirato dal vento, la neve sbattuta sulla pelle, si sente.
Ormai alle 4:30 del mattino, salendo verso Sella Conway, arriva la luce, flebile e bianca, come la nebbia.
Non riesco a percepire dove mi trovo.
Per salire sulle corde fisse utilizziamo uno strumento, la maniglia Jumar.
Per scendere un discensore.
La mia lampada frontale mette a fuoco sotto le mie mani il cambio degli attrezzi.
Jumar, sali.
Discensore, scendi.
Il meteo non si è rischiarato, fatica e serenità, si.
Discensore.

L’insuccesso

Se voglio disegnare su di un foglio un cerchio con una matita, che mi riporti dopo un lungo o breve percorso a casa, non posso fermarmi ad un certo punto.
Per quanto la punta possa spezzarsi.
Devo continuare fino a raggiungere il segno iniziato tempo prima.
Altrimenti il risultato non sarebbe una linea chiusa, ma un disegno sghembo.
L’obiettivo non può essere qualcosa di intermedio, non può interrompere il percorso che ti sta portando, o riportando, a ciò che sei, frutto di altri percorsi.
E ad ogni passo un tassello in più che cerca di comporre quell’umanità che tu hai scelto.
Se i risultati in cui speravi e che sono lungo il percorso, per i quali stai mettendo tutte le tue capacità, non dovessero arrivare, non fermarti.
Puoi guardare indietro, per scoprire tutto ciò che hai avuto da quella punta di matita fino a quel punto.
Se avrai la capacità di alleggerire il cuore potrai cambiare foglio.

ANCORA!

Aveva cercato quegli occhi, dietro alle montagne, oltre il passo, aveva alzato ogni sassolino alla loro ricerca. 
Un giorno intero. 
Occhi che ogni volta che  li incrociava veniva risucchiato, come se un vento fortissimo spalancasse improvvisamente la finestra e lo strappasse da lì, dove stava in piedi, guardando fuori, in attesa di quel momento.
Dentro, a quegli occhi, non c’era l’iride.
Dentro c’era un mondo magico.
In quel mondo in cui era stato trasportato trovava finalmente silenzio, e gli bastava guardare le cose perché queste, in modo autonomo, si mettessero al loro posto. 
Se guardava la libreria [ad esempio] tutti i libri che con anni di disordine erano adagiati nei luoghi più impensabili, ritornavano magicamente nel loro scaffale. Volando!
Una volta aveva visto un bambino che piangeva, senti la tenerezza più grande che un cuore potesse contenere, ma avvicinandosi si accorse che stava piangendo per il troppo ridere,  sbellicandosi dalle risate.
Cercò quegli occhi nelle persone che incontrava, le guardava fisse, da vicino, che loro si spaventavano.
C’era fatica in quel cercare, molte volte  si è inciampato correndo qua e là. Inciampando sbatteva la faccia a terra, e con la faccia piena di polvere doveva chiuderli, i suoi, negandosi la possibilità così di vedere qualunque cosa.
Oggi, in questo preciso giorno, però, non riuscì a trovarli. Quando fuori c’è buio le persone vanno a dormire, e i loro occhi li tengono chiusi.
Li cercò in continuazione, ancora, ancora.
Ancora!

NOTTE DI LUNA

La sveglia la aveva messa, ma la fermò prima che suonasse. La notte, nera come il buio quando chiudi gli occhi per la paura, era fuori, ancora tutta intera.
Cercando di non pensare a cosa lo attendeva si vestì e cercò di partire, portando con sé il necessario. Salire quella montagna aveva necessità, di attrezzatura, di desiderio.
La lampada che aveva in fronte illuminava il sentiero e gli permetteva di riconoscere i singoli sassolini, il particolare, e tralasciare tutto il resto che lo circondava, rendendo quel gioco più semplice e facile. Libero da paure. Concentrato solo sul suo respiro faticoso.
A guardarlo da lontano, dall’alto, dava l’impressione di muoversi nell’immenso ma protetto come nella pancia di una madre che, una volta messolo al mondo, lo avrebbe protetto usando i denti e le unghie, se fosse stato necessario. Anche contro la bestia ferita più feroce della foresta.
Quasi stava correndo per raggiungere l’attacco della salita. Salita che normalmente richiedeva prima una notte al campo alto, ma che lui aveva riconosciuto come un tutt’uno con la lunga giornata che lo attendeva. 
Era in fuga. 
Una fuga che non voleva spostare il suo corpo, e nemmeno era una necessità di dimenticare. Era una fuga per allontanarsi dalla terra. Lasciare indietro i dubbi, le domande di cui è fatto l’uomo.
Più veloce che poteva, perché correndo, quando il cuore è in gola, il tempo vola. Il suo cuore stava spento in discesa, si accendeva solo in salita.
Indossò ramponi, si infilò l’imbrago, vi assicurò la picozza, agganciò moschettoni e Jumar. Era solo, questo gli procurava ebrezza ed apprensione. Un misto tra felicità e paura. 
La vita. Sentiva il suo scorrere. Intensità, profondità.
Il cielo era ancora nero, l’aria fredda.
Non conosceva quella montagna, ma credo che lei invece lo cercasse da tempo. È così che succede. Con la sua malizia di femmina.
Il respiro affannoso. Un colpo di picca. La Jumar che scivola in avanti lungo la corda. Un passo. La punta del rampone che fa rumore.
Il cuore sobbalza, il respiro diventa intenso.
Quello che cercava era sentire quell’attrazione irresistibile, come se qualcuno lo aspettasse.
Là fuori trovava chi gli mancava. Chi lo aveva lasciato, chi lo aveva trovato. Con i loro tempi arrivarono anche la luce del giorno, la cima, il placarsi del respiro. Si avviò quindi a scendere, perché un cerchio non si regge finché non è chiuso.
Poi aprì gli occhi, la sveglia stava suonando.
E c’era la luna

L’insegnante

Insegnare è un mestiere da affrontare con delicatezza. Io provo a scimmiottare quello che so dovrebbe essere, tentando di fare il meglio possibile, senza troppi danni. Sbaglio, mi correggo, ritento nuovamente.

A volte mi demoralizzo. Studio, cerco entusiasmo. Cambio il punto di vista, guardo le cose con gli occhi altrui. Riprovo.

Non cerco di trasferire solo conoscenze, ma di stimolare la curiosità, per una voglia di conoscere che trascende la scuola.

Sicuramente ciò che l’insegnante è, è più importante di ciò che insegna. Essere tu l’esempio di ciò che tenti e ti aspetti da loro. Dei progetti che proponiamo in laboratorio sono io il primo ad innamorarmene, e forse questo è un modo..

L’esperienza della Khumjung Hillary School in Nepal mi ha insegnato a non dare nulla per scontato, che anche la più piccola scoperta, anche senza valore in sé, porta dentro lo stupore che può innescare la voglia di conoscere. Quella che ti accende il desiderio di capire e di riuscire.

Ma mi ha anche fatto capire che se a volte ti sembra tutto tempo perso, anche se non riesci a vedere l’efficacia del tuo sforzo, magari anche per uno studente solo, o per un attimo solo, ne è valsa la pena.

Oggi ho scalato l’Ama Dablam

È una montagna vertiginosa.
Entrarci di notte mi ha emozionato con le sue dimensioni e la sua verticalità.
La sua bellezza è urlata.
L’ho cercata per una seconda volta, ogni volta che alzi lo sguardo in Khumbu lei è sempre lì.
Difficile per le mie capacità, a tratti mi sono fatto un po’ di violenza per insistere.

Pensi che la tua felicità sia dovuta all’averla salita?
Stà lì la felicità?
No, la felicità non te la dà una montagna, devi andartela a prendere ovunque essa sia.

Questa montagna è stata forse un pretesto per essere qui, cercando strade che mi conducano attraverso sentieri fatti di lontananze, di sogni, di solitudini, di bellezza, a sentire forte le mie necessità.
Salire le montagne è un gioco che mi piace e mi fa stare bene, ma sono le persone che fanno la mia esistenza.
Sono un bimbo che cresce e la vita nuova che arriva.

Poi c’è il mio legame con questa gente.
Oggi, mentre scendevo verso il campo base, stravolto dalla stanchezza dopo questa lunga giornata, mi sono visto venire incontro un volto amico.
Era Phurbà, il kitchen boy, l’aiuto cuoco sempre disponibile al campo, che si era fatto un’ora/mezza di salita per venirmi incontro, per offrirmi Coca Cola e cibo, ed ho dovuto insistere per non dare a lui il mio zaino.
In Nepal, tra contraddizioni a volte incomprensibili, c’è un grande cuore.
Voler loro semplicemente bene, loro che per primi ti vogliono bene, non basta.
Voglio fare di più.

Finestre

Ad ogni gradino una inspirazione, al successivo una espirazione, profonde lungo la salita verso Dole, Nepal.
Il respiro lo possiamo lasciare andare al suo incedere involontario, come normalmente, nella nostra confort zone fatta di sicurezze.
Oppure, se vogliamo provare ad aumentare il passo, ad andare oltre, è necessario farlo in modo volontario, mettendoci in gioco, controllandolo e forzandolo.

Così per i sogni.
Possiamo lasciare andare la vita, attraversandola protetti da certezze acquisite, da sicurezze tangibili che accuratamente ci siamo/ci hanno costruito.
Possiamo anche mollare tutte queste mura amiche e guardare l’orizzonte che ci invita, ma che nulla può più garantire.
C’è un passo da fare senza certezza di riuscita.
C’è un respiro profondo da forzare, ad occhi chiusi.
E andare.
Si può perdere, per essere.
Si ha già perso, se non vogliamo provare.

L’amore non segue leggi diverse.
Puoi guardarlo attraverso una finestra riscoperta di ghiaccio, stringerti in una riscaldante abbraccio con te stesso, e rimanere nella confort zone.
Oppure puoi aspettare che il sole sbrini i vetri  e guardare lontano.
Ma poi devi aprire la finestra.

Il mio corpo estraneo

C’è un corpo qui con me (ed io dentro di lui), compagno di vita.. 
Da sempre condividiamo lo spazio e gli umori.
Ma non siamo la stessa cosa.
Mi serve per essere.
Siamo fatti l’uno per l’altro, non lo nego, ma sono più i tradimenti tra noi che le verità.

Io non sono il mio corpo, almeno non solo.
Passiamo il tempo insieme, dobbiamo allearci per i momenti difficili, ma le nostre strade non sono parallele.
Io desidererei essere ovunque io possa vivere ciò che immaginandolo mi fa sentire pienezza, bellezza, intensità, in un tempo unico.
Lui però non me lo permette.
Il mio corpo ha limitazioni che non accetto, nel tempo e nello spazio. Potrebbe anche smettere di vivere, interrompere questa dinamicità, ritornare chissà dove, immobile. Forse per sempre.
Come se, dopo avermi fatto percepire profondità che toccano il cuore, dicesse “scherzavo, ora basta”.

È da tempo che lo osservo e ad ogni sguardo sfugge sempre più alla mia appartenenza. 
A volte mi è capitato di percepire come se io ne fossi al di fuori.
Un involucro con i suoi meccanismi, il respirare, il battito, la digestione, ai quali non posso oppormi. Se si inceppa si ferma.
Ma non è come il meccano, che poi può ripartire.

Se si ferma muore, marcisce.

Me ne prendo cura, mi sforzo di alimentarlo nel migliore dei modi, con sacrifici, lo preparo, l’abituo al peggio perché possa difendersi, lo alleno.
Lo ascolto per poterlo aiutare.
Mi approccio a lui come fosse altro da me.
Una terza persona.

Mi guardo, ma non mi riconosco.
Osservo il mio volto da vicino, nello specchio, ma la fronte, il naso i capelli, non sono i miei. Solo la bocca e gli occhi hanno una vaga somiglianza con me. Ma non gli occhi e la bocca in sé, ma come li uso.
Se penso a me mi identifico con ciò che sento, lo sfregolio delle emozioni, l’impazienza della vita, l’amore che mi commuove e mi procura malinconia.
Non certo per ciò che mi si vede da fuori.
I sogni che mi accendono le giornate, il buio degli occhi chiusi che mi lascia immaginare, mi lascia inventare. È questo quello che vedo di me.
Tu, come mi vedi?

Vi è mai capitato di procurarvi una ferita profonda a tal punto da poterci guardare dentro?
Facendolo ho avuto una specie di vertigine, nausea, malessere, quasi sensazione di mancamento.
Ci ho visto un mondo diverso da come normalmente concepiamo il nostro corpo, dall’esterno. Un insieme di corpuscoli molli, vividi, nauseanti, e che il guardarli mi procurava un dolore profondo, dolore fisico, viscerale, perché ero io. Il mio corpo.

Così diverso dall’immagine che abbiamo delle cose. Immagine da fuori. Vediamo ciò che appariamo fuori.
Identifichiamo le persone attraverso le sensazioni che ci procurano: bello, antipatico, un profumo, un odore, il suono di una voce.
Non proviamo nemmeno ad immaginare ciò che c’è dietro, dentro. Non ci serve, anzi non corrisponde a ciò che vogliamo percepire.

È però lo strumento che ho per comunicare, con altri corpi.
Parole sussurrate, strette di mano, sorrisi, abbracci, forza, lacrime, baci, sono i bit di questa comunicazione. Comunicazione attraverso i corpi, ma tra anime.
Se in questo momento potessi avere qui vicino le persone che mi mancano userei questo linguaggio.
Ma ne ho altri per stare con loro, anche se sono lontani o non ci sono.
Al di là del corpo.

Le necessità di questa giornata

Sto pensando al mio bimbo.
A quanta necessità ho di lui.

Questa mattina partendo da Namche Bazar ho commesso un errore che ancora non mi sono perdonato.
Il peluche che porto con me, e che come un elastico mi tiene legato a casa, l’ho lasciato nella stanza dove ho dormito.
Quando me ne sono accorto le ore di cammino fatto erano tante per tornare indietro, ma so che arriverà con me al campo base.
Per questo ritornerei a Namche Bazar.

Certamente questi periodi di lontananza ci tolgono qualcosa: la presenza fisica, la cura nella contingenza, i giochi insieme.
Forse, però, se il suo papà saprà crescere attraverso le opportunità che queste esperienze gli offrono, potremo anche avere qualcosa: un tempo insieme vissuto con maggiore intensità,  carezze date con diversa sensibilità.

Potrei forse anche raccontargli di come i bambini che vivono così lontani hanno il suo stesso sorriso, giocano, piangono come lui.

E lo racconto anche a noi perché, nessuno escluso, credo dovremmo sentirci tutti papà per ogni bambino.

Khumbu children’s

I bambini del Khumbu hanno gli occhi neri.
Pieni di luce.
Forse perché sono così vicini al cielo.
Quando guardano nell’obiettivo, il telefono va in mille pezzi!

Per loro, come per ogni bambino, la realtà è il gioco.
Vivono non avendo niente, la loro abitudine è l’accontentarsi.
Credo che sia per questo che hanno tutto.
Oggi, come sempre quando sono in questi luoghi, ho le tasche piene di caramelle.
Questo mi permette di godere delle loro grazie, con il desiderio di essere visto come amico.

Che ne sarà del loro futuro?
Potranno avere una vita dignitosa?
Ciò che sarà di questa valle e del Nepal passa necessariamente attraverso di loro.
Forse la domanda da porsi è: verrà data loro la possibilità di andare a scuola, di poter studiare, per riuscire a costruirsi un futuro per la loro società, senza essere costretti a vivere di fatica o di espedienti?

Nel frattempo insistiamo nel volerci bene