Il mio corpo estraneo

C’è un corpo qui con me (ed io dentro di lui), compagno di vita.. 
Da sempre condividiamo lo spazio e gli umori.
Ma non siamo la stessa cosa.
Mi serve per essere.
Siamo fatti l’uno per l’altro, non lo nego, ma sono più i tradimenti tra noi che le verità.

Io non sono il mio corpo, almeno non solo.
Passiamo il tempo insieme, dobbiamo allearci per i momenti difficili, ma le nostre strade non sono parallele.
Io desidererei essere ovunque io possa vivere ciò che immaginandolo mi fa sentire pienezza, bellezza, intensità, in un tempo unico.
Lui però non me lo permette.
Il mio corpo ha limitazioni che non accetto, nel tempo e nello spazio. Potrebbe anche smettere di vivere, interrompere questa dinamicità, ritornare chissà dove, immobile. Forse per sempre.
Come se, dopo avermi fatto percepire profondità che toccano il cuore, dicesse “scherzavo, ora basta”.

È da tempo che lo osservo e ad ogni sguardo sfugge sempre più alla mia appartenenza. 
A volte mi è capitato di percepire come se io ne fossi al di fuori.
Un involucro con i suoi meccanismi, il respirare, il battito, la digestione, ai quali non posso oppormi. Se si inceppa si ferma.
Ma non è come il meccano, che poi può ripartire.

Se si ferma muore, marcisce.

Me ne prendo cura, mi sforzo di alimentarlo nel migliore dei modi, con sacrifici, lo preparo, l’abituo al peggio perché possa difendersi, lo alleno.
Lo ascolto per poterlo aiutare.
Mi approccio a lui come fosse altro da me.
Una terza persona.

Mi guardo, ma non mi riconosco.
Osservo il mio volto da vicino, nello specchio, ma la fronte, il naso i capelli, non sono i miei. Solo la bocca e gli occhi hanno una vaga somiglianza con me. Ma non gli occhi e la bocca in sé, ma come li uso.
Se penso a me mi identifico con ciò che sento, lo sfregolio delle emozioni, l’impazienza della vita, l’amore che mi commuove e mi procura malinconia.
Non certo per ciò che mi si vede da fuori.
I sogni che mi accendono le giornate, il buio degli occhi chiusi che mi lascia immaginare, mi lascia inventare. È questo quello che vedo di me.
Tu, come mi vedi?

Vi è mai capitato di procurarvi una ferita profonda a tal punto da poterci guardare dentro?
Facendolo ho avuto una specie di vertigine, nausea, malessere, quasi sensazione di mancamento.
Ci ho visto un mondo diverso da come normalmente concepiamo il nostro corpo, dall’esterno. Un insieme di corpuscoli molli, vividi, nauseanti, e che il guardarli mi procurava un dolore profondo, dolore fisico, viscerale, perché ero io. Il mio corpo.

Così diverso dall’immagine che abbiamo delle cose. Immagine da fuori. Vediamo ciò che appariamo fuori.
Identifichiamo le persone attraverso le sensazioni che ci procurano: bello, antipatico, un profumo, un odore, il suono di una voce.
Non proviamo nemmeno ad immaginare ciò che c’è dietro, dentro. Non ci serve, anzi non corrisponde a ciò che vogliamo percepire.

È però lo strumento che ho per comunicare, con altri corpi.
Parole sussurrate, strette di mano, sorrisi, abbracci, forza, lacrime, baci, sono i bit di questa comunicazione. Comunicazione attraverso i corpi, ma tra anime.
Se in questo momento potessi avere qui vicino le persone che mi mancano userei questo linguaggio.
Ma ne ho altri per stare con loro, anche se sono lontani o non ci sono.
Al di là del corpo.